Viviamo in un’epoca in cui la proliferazione di informazioni, la velocità del web, la diffusione dei social media e l’intelligenza artificiale rendono estremamente difficile distinguere ciò che è autentico da ciò che è falso.

I nostri sensi vanno in crisi, non possiamo più fidarci.

Da questa considerazione emergono alcune domande.

La prima: vero e autentico sono la stessa cosa?

Vero e autentico sono termini spesso usati come sinonimi, ma hanno significati distinti. Vero si riferisce a ciò che corrisponde ai fatti, alla realtà oggettiva.

Autentico indica ciò che non è falso o falsificato, che può essere provato come vero, ma aggiunge una dimensione di origine, genuinità e coerenza. Un oggetto, un documento o un’opera d’arte sono autentici quando sono originali e non imitazioni; una persona è autentica quando si comporta in modo coerente con la propria natura e i propri valori.

Autentico può essere percepito come vero, ma non sempre coincide con la verità oggettiva.

Sia “vero” sia “autentico” hanno lo stesso contrario. Curioso.

La seconda: se non siamo in grado di distinguere il reale dal falso, come riusciamo a dare senso a ciò che ci sta intorno? Come facciamo a dare senso alla nostra vita?

Dare un senso, inteso come usare i nostri sensi per percepire il mondo che ci circonda, è un processo immediato, corporeo, legato all’esperienza diretta: toccare un oggetto, ascoltare una musica, osservare un paesaggio.

Dare significato va oltre la percezione sensoriale. Vuol dire attribuire un valore, un’intenzione o una spiegazione a ciò che viviamo: il significato nasce dall’interpretazione, dalla riflessione, dalla cultura e dalla storia personale.

Quali sono le posizioni a riguardo dei grandi pensatori?

Nella visione platonica, le idee esistono in un mondo separato, mentre la realtà materiale è solo una loro copia imperfetta. Al contrario, nella visione aristotelica, la vera realtà si manifesta solo nell’unione tra forma e materia; la forma senza materia è un’astrazione, e la materia senza forma è indeterminata. Da un lato, vi è quindi una concezione delle idee come entità separate e perfette; dall’altro, le idee (forme) esistono solamente nella realtà concreta, unite alla materia.

Distinguere se una foto o un video rappresentano figure umane viventi o rappresentazioni virtuali era un dubbio che non esisteva tremila anni fa. Non esisteva il confine tra concreto e virtuale, oggi sì. La forma può esistere senza la materia fisica corrispondente. Pertanto, non si tratta di stabilire se avesse ragione Platone o Aristotele, ma piuttosto di comprendere perché ci crea disagio il fatto di non poter distinguere il reale dal virtuale.

Il virtuale può costituire una realtà autentica. Il termine “virtuale” non implica necessariamente imitazione o illusione. In questa prospettiva, reale non è solo ciò che è fisico, ma tutto ciò che esiste e produce effetti, anche se in modo digitale o simulato. Vero e falso riguardano invece la corrispondenza tra ciò che viene rappresentato e ciò che è.

Una narrazione, un’immagine o un’informazione sono vere se corrispondono a un fatto, a uno stato di cose, a una realtà condivisa. Sono false se ingannano, se presentano come reale ciò che non lo è, se nascondono intenzionalmente la verità.

Ecco perché continuiamo ad avere bisogno di storie, miti e narrazioni, che anch’esse sono finzioni antiche quanto l’uomo — esistevano già ai tempi di Platone e Aristotele. Perché questa apparente contraddizione? Perché le narrazioni non ci hanno mai portato in crisi? Le storie, i miti e le narrazioni aiutano gli esseri umani a dare un ordine al caos dell’esperienza, a spiegare l’origine del mondo, la natura umana, il bene e il male. Fondano comunità, valori, appartenenza. Anche quando sono simboliche o fantastiche, veicolano verità profonde (morali, psicologiche, esistenziali). Il pubblico sa che si tratta di una storia, di una rappresentazione, di una metafora. La sospensione dell’incredulità è volontaria e condivisa: ci lasciamo trasportare, ma siamo consapevoli che è “finzione”.

Oggi, invece, il rischio è che non riusciamo più a distinguere tra rappresentazione e realtà. Qui la sospensione dell’incredulità non è più volontaria, ma subita. I miti e le storie non sono “veri” in senso fattuale, ma possono essere veri in senso simbolico, esistenziale, psicologico. Le immagini, i video, le informazioni digitali pretendono invece di essere “documenti” della realtà. Quando questa pretesa viene tradita, nasce la crisi epistemologica. C’è un patto tra chi narra e chi ascolta/legge: “Ti racconto una storia che ti aiuta a capire il mondo, anche se non è letteralmente vera”. Il patto si rompe quando la finzione si presenta come realtà oggettiva, e non siamo più in grado di discernere. È qui che nasce la crisi: non dalla finzione in sé, ma dalla perdita dei confini tra finzione e realtà.

Non è la finzione a portarci in crisi, ma la perdita della capacità di riconoscerla come tale.

Senza la percezione sensoriale, non avremmo nulla su cui riflettere. Senza l’interpretazione, la realtà rimarrebbe muta, priva di valore personale o culturale.

La nostra esperienza del mondo è sempre un intreccio tra ciò che sentiamo e ciò che interpretiamo.

Quando i nostri sensi vanno in crisi, va in crisi il senso e il significato che diamo alla vita. Facciamo fatica a orientarci. Insicurezza, ansia, perdita di fiducia in sé stessi e negli altri la fanno da padrone. Siamo più esposti alla manipolazione, alla propaganda, alla perdita di autonomia critica.

Hermann Hesse in un passo tratto da “Il lupo della steppa” (Der Steppenwolf) scrive:

“Per questo mondo odierno, semplice, comodo, di facile contentatura, tu hai troppe pretese, troppa fame, ed esso ti rigetta perché hai una dimensione in più. Chi vuol vivere oggi e godere la vita non deve essere come te o come me. Chi pretende musica invece di miagolio, gioia invece di divertimento, anima invece di denaro, lavoro invece di attività, passione invece di trastullo, per lui questo bel mondo non è una patria…”

È un libro di quasi cento anni fa ma lo trovo dannatamente attuale. Riflette la tensione esistenziale del protagonista, Harry Haller, di fronte a una società moderna che percepisce come superficiale e appiattita. Il testo esprime un senso di estraneità e insoddisfazione verso il mondo contemporaneo, descritto come “semplice, comodo, di facile contentatura”. Chi cerca qualcosa di più profondo — musica vera invece di rumore, gioia autentica invece di mero divertimento, anima invece di denaro — si trova inevitabilmente emarginato, perché possiede “una dimensione in più” che la società non comprende né accetta.

Tutto ci spinge a scorrere invece di fermarci, a mostrare invece di sentire, accumulare invece di comprendere.

Reagire invece di riflettere. È un mondo rapido, rumoroso, saturo. Un mondo che ci fa sbandare. Istintivamente, cerchiamo di adattarci.

Ma proprio come quando si guida su una strada ghiacciata, seguire l’istinto è l’errore. Quando l’auto perde aderenza, l’istinto ti direbbe di sterzare nella direzione della curva, ma dobbiamo fare l’opposto. Controsterzare. È un’azione apparentemente sbagliata, eppure salvifica. Devi girare il volante nella stessa direzione in cui stai slittando. È l’unico modo di sperare di recuperare equilibrio.

Controsterzare oggi significa non farsi portare via. Significa restare aderenti alla propria interiorità, anche quando tutto spinge verso l’esterno. Significa tornare umani. Perché essere umani, davvero, oggi non è più scontato. Vuol dire sentire la vita con tutti i sensi, anche se fa male. Vuol dire scegliere il silenzio in un’epoca urlata. Vuol dire cercare verità, sapendo che potrebbe costare solitudine. Ma in quella solitudine c’è spazio. In quella lentezza, c’è forza. In quel controsterzo, c’è bellezza. E quella dimensione in più diventa sapienza.