Siete in un caffè affollato, seduti ad un tavolo dopo una lunga giornata di lavoro. “Finalmente tempo per me”, pensate. Il cameriere vi porta il caffè, aprite il libro, spegnete il cellulare. L’aroma sale, il tempo si interrompe, le conversazioni dei tavoli vicini un piacevole sottofondo. Alzate lo sguardo meccanicamente e sono lì: una coppia in silenzio; parlano con gli occhi in un linguaggio tutto loro, dove le parole non ci possono arrivare, non servono. Senti la tensione, il coinvolgimento e accenni un sorriso.

Quante volte avete visto una scena così, almeno in un film. Ecco nei film, ma perchè? Perchè per rendere avvincente una storia, l’importante è quello che si mostra, non quello che si dice. Mi ricordo la frase attribuita a Checov: “non dirmi che la luna splende, mostrami il suo riflesso su un vetro infranto”, che riassume secondo me l’essenza di un “trucco” usato nella narrazione: show, don’t tell, mostra, non dire.

Un esempio magistrale dell’uso di questo principio è il film Psycho di Alfred Hitchcock. Il film si basa su suggestioni, simbolismo per ritrarre la psiche disturbata di Norman Bates e il tragico destino di Marion Crane, creando un senso di disagio e orrore negli spettatori, senza ricorrere a esplicite manifestazioni di sangue o violenza. Nella famosa scena della doccia l’omicidio in sé non viene mai mostrato completamente, ma viene trasmesso attraverso angolazioni suggestive della macchina da presa, montaggio ed effetti sonori: ricordate i violini? Questa tecnica è molto più inquietante che mostrare la violenza in modo esplicito. Al pubblico è lasciato il compito di immaginare.

Ok, questo è un modo, un metodo, un trucco, chiamatelo come volete, utilizzato per raccontare storie efficacemente, in mondi dove le storie, che siano romanzi, articoli o film, sono il prodotto da vendere.

La domanda che mi faccio è: questa tecnica può essere utile nella quotidianità, lontano dal mondo fittizio delle favole? Penso di sì. Può costruire relazioni, migliorare la comprensione generale. In altre parole aiuta ad ascoltare e condividere le proprie esperienze emotive. Rende la comunicazione più coinvolgente e memorabile. Condividendo autenticamente esperienze personali si crea un legame emotivo.

Adesso vi propongo un collegamento azzardato tra questo principio e il pensiero di un filosofo, Henry Bergson. Per il filosofo francese la vera comprensione deriva dall’intuizione, piuttosto che dall’analisi intellettuale. Il linguaggio per Bergson non riesce a catturare l’essenza delle esperienze, derivando ad una dipendenza dalla rappresentazione simbolica; invece di focalizzarsi su esposizioni dirette, il linguaggio dovrebbe dare priorità a immagini evocative, con uno stile che trasmetta il significato attraverso metafore e dettagli sensoriali. Lo show don’t tell appunto.

Anche il concetto di durata (la durée) di Bergson è coerente con questo principio. Mette in luce la natura qualitativa del tempo e dell’esperienza umana, suggerendo che la vita sia un flusso continuo, piuttosto che una serie di momenti discreti. Questa prospettiva si traduce in una percezione della fluidità delle esperienze evocando risposte emotive profonde.

Raccontare storie così funziona. Costruire una narrazione quotidiana così funziona. Basta coinvolgere le emozioni. Perchè le emozioni sono una forza potente che guida le decisioni e azioni nella nostra vita. Non sono solo sensazioni di fondo, ma veri e propri motori. Ne sapeva qualcosa Shakespeare, ma per adesso mi fermo qui.