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Autore: lupo_pensante Pagina 1 di 17

Controsterzo

Viviamo in un’epoca in cui la proliferazione di informazioni, la velocità del web, la diffusione dei social media e l’intelligenza artificiale rendono estremamente difficile distinguere ciò che è autentico da ciò che è falso.

I nostri sensi vanno in crisi, non possiamo più fidarci.

Da questa considerazione emergono alcune domande.

La prima: vero e autentico sono la stessa cosa?

Vero e autentico sono termini spesso usati come sinonimi, ma hanno significati distinti. Vero si riferisce a ciò che corrisponde ai fatti, alla realtà oggettiva.

Autentico indica ciò che non è falso o falsificato, che può essere provato come vero, ma aggiunge una dimensione di origine, genuinità e coerenza. Un oggetto, un documento o un’opera d’arte sono autentici quando sono originali e non imitazioni; una persona è autentica quando si comporta in modo coerente con la propria natura e i propri valori.

Autentico può essere percepito come vero, ma non sempre coincide con la verità oggettiva.

Sia “vero” sia “autentico” hanno lo stesso contrario. Curioso.

La seconda: se non siamo in grado di distinguere il reale dal falso, come riusciamo a dare senso a ciò che ci sta intorno? Come facciamo a dare senso alla nostra vita?

Dare un senso, inteso come usare i nostri sensi per percepire il mondo che ci circonda, è un processo immediato, corporeo, legato all’esperienza diretta: toccare un oggetto, ascoltare una musica, osservare un paesaggio.

Dare significato va oltre la percezione sensoriale. Vuol dire attribuire un valore, un’intenzione o una spiegazione a ciò che viviamo: il significato nasce dall’interpretazione, dalla riflessione, dalla cultura e dalla storia personale.

Quali sono le posizioni a riguardo dei grandi pensatori?

Nella visione platonica, le idee esistono in un mondo separato, mentre la realtà materiale è solo una loro copia imperfetta. Al contrario, nella visione aristotelica, la vera realtà si manifesta solo nell’unione tra forma e materia; la forma senza materia è un’astrazione, e la materia senza forma è indeterminata. Da un lato, vi è quindi una concezione delle idee come entità separate e perfette; dall’altro, le idee (forme) esistono solamente nella realtà concreta, unite alla materia.

Distinguere se una foto o un video rappresentano figure umane viventi o rappresentazioni virtuali era un dubbio che non esisteva tremila anni fa. Non esisteva il confine tra concreto e virtuale, oggi sì. La forma può esistere senza la materia fisica corrispondente. Pertanto, non si tratta di stabilire se avesse ragione Platone o Aristotele, ma piuttosto di comprendere perché ci crea disagio il fatto di non poter distinguere il reale dal virtuale.

Il virtuale può costituire una realtà autentica. Il termine “virtuale” non implica necessariamente imitazione o illusione. In questa prospettiva, reale non è solo ciò che è fisico, ma tutto ciò che esiste e produce effetti, anche se in modo digitale o simulato. Vero e falso riguardano invece la corrispondenza tra ciò che viene rappresentato e ciò che è.

Una narrazione, un’immagine o un’informazione sono vere se corrispondono a un fatto, a uno stato di cose, a una realtà condivisa. Sono false se ingannano, se presentano come reale ciò che non lo è, se nascondono intenzionalmente la verità.

Ecco perché continuiamo ad avere bisogno di storie, miti e narrazioni, che anch’esse sono finzioni antiche quanto l’uomo — esistevano già ai tempi di Platone e Aristotele. Perché questa apparente contraddizione? Perché le narrazioni non ci hanno mai portato in crisi? Le storie, i miti e le narrazioni aiutano gli esseri umani a dare un ordine al caos dell’esperienza, a spiegare l’origine del mondo, la natura umana, il bene e il male. Fondano comunità, valori, appartenenza. Anche quando sono simboliche o fantastiche, veicolano verità profonde (morali, psicologiche, esistenziali). Il pubblico sa che si tratta di una storia, di una rappresentazione, di una metafora. La sospensione dell’incredulità è volontaria e condivisa: ci lasciamo trasportare, ma siamo consapevoli che è “finzione”.

Oggi, invece, il rischio è che non riusciamo più a distinguere tra rappresentazione e realtà. Qui la sospensione dell’incredulità non è più volontaria, ma subita. I miti e le storie non sono “veri” in senso fattuale, ma possono essere veri in senso simbolico, esistenziale, psicologico. Le immagini, i video, le informazioni digitali pretendono invece di essere “documenti” della realtà. Quando questa pretesa viene tradita, nasce la crisi epistemologica. C’è un patto tra chi narra e chi ascolta/legge: “Ti racconto una storia che ti aiuta a capire il mondo, anche se non è letteralmente vera”. Il patto si rompe quando la finzione si presenta come realtà oggettiva, e non siamo più in grado di discernere. È qui che nasce la crisi: non dalla finzione in sé, ma dalla perdita dei confini tra finzione e realtà.

Non è la finzione a portarci in crisi, ma la perdita della capacità di riconoscerla come tale.

Senza la percezione sensoriale, non avremmo nulla su cui riflettere. Senza l’interpretazione, la realtà rimarrebbe muta, priva di valore personale o culturale.

La nostra esperienza del mondo è sempre un intreccio tra ciò che sentiamo e ciò che interpretiamo.

Quando i nostri sensi vanno in crisi, va in crisi il senso e il significato che diamo alla vita. Facciamo fatica a orientarci. Insicurezza, ansia, perdita di fiducia in sé stessi e negli altri la fanno da padrone. Siamo più esposti alla manipolazione, alla propaganda, alla perdita di autonomia critica.

Hermann Hesse in un passo tratto da “Il lupo della steppa” (Der Steppenwolf) scrive:

“Per questo mondo odierno, semplice, comodo, di facile contentatura, tu hai troppe pretese, troppa fame, ed esso ti rigetta perché hai una dimensione in più. Chi vuol vivere oggi e godere la vita non deve essere come te o come me. Chi pretende musica invece di miagolio, gioia invece di divertimento, anima invece di denaro, lavoro invece di attività, passione invece di trastullo, per lui questo bel mondo non è una patria…”

È un libro di quasi cento anni fa ma lo trovo dannatamente attuale. Riflette la tensione esistenziale del protagonista, Harry Haller, di fronte a una società moderna che percepisce come superficiale e appiattita. Il testo esprime un senso di estraneità e insoddisfazione verso il mondo contemporaneo, descritto come “semplice, comodo, di facile contentatura”. Chi cerca qualcosa di più profondo — musica vera invece di rumore, gioia autentica invece di mero divertimento, anima invece di denaro — si trova inevitabilmente emarginato, perché possiede “una dimensione in più” che la società non comprende né accetta.

Tutto ci spinge a scorrere invece di fermarci, a mostrare invece di sentire, accumulare invece di comprendere.

Reagire invece di riflettere. È un mondo rapido, rumoroso, saturo. Un mondo che ci fa sbandare. Istintivamente, cerchiamo di adattarci.

Ma proprio come quando si guida su una strada ghiacciata, seguire l’istinto è l’errore. Quando l’auto perde aderenza, l’istinto ti direbbe di sterzare nella direzione della curva, ma dobbiamo fare l’opposto. Controsterzare. È un’azione apparentemente sbagliata, eppure salvifica. Devi girare il volante nella stessa direzione in cui stai slittando. È l’unico modo di sperare di recuperare equilibrio.

Controsterzare oggi significa non farsi portare via. Significa restare aderenti alla propria interiorità, anche quando tutto spinge verso l’esterno. Significa tornare umani. Perché essere umani, davvero, oggi non è più scontato. Vuol dire sentire la vita con tutti i sensi, anche se fa male. Vuol dire scegliere il silenzio in un’epoca urlata. Vuol dire cercare verità, sapendo che potrebbe costare solitudine. Ma in quella solitudine c’è spazio. In quella lentezza, c’è forza. In quel controsterzo, c’è bellezza. E quella dimensione in più diventa sapienza.

La Semiotica della Solitudine

Siamo immersi nella connettività, siamo connessi. Digitalmente però. Questo implica un paradosso: siamo soli. Il modo in cui la tecnologia media le relazioni umane porta a questo. Sherry Turkle, una psicologa americana, nel suo libro Alone Together, del 2011, criticava il modo in cui la tecnologia ridefinisce i rapporti tra persone, conducendo, appunto, a un senso di isolamento. Perchè? Fondamentalmente per una sempre più evidente incapacità a dialogare.

La parola “dialogo” deriva dal greco dialogos, che letteralmente significa “conversazione”. Il prefisso dia vuol dire “attraverso” o “tra”. Suggerisce il flusso di comunicazione tra persone che la pensano in maniera differente. Logos ha molteplici significati, tra cui “discorso”, “ragione” e “parola”. Pertanto, “dialogo” etimologicamente significa una conversazione in cui parole e idee fluiscono “attraverso” o “tra” i partecipanti. Questo evidenzia la natura interattiva e dinamica del dialogo, in cui gli individui si scambiano pensieri e prospettive.  

La connessione è un contatto, per giunta mediato tecnologicamente, non è uno scambio.

La conversazione faccia a faccia sincronizza l’attività cerebrale, attivando aree legate all’empatia e alla cognizione sociale e aumenta la secrezione di ossitocina. Storicamente, gli esseri umani si impegnavano in rituali dialogici per diverse ore al giorno.

Ricordiamoci che il nostro cervello è lo stesso da milioni di anni e funziona sempre nello stesso modo.

I fasulli scambi digitali non stimolano le ricompense neurochimiche associate a un profondo legame sociale, con il risultato di diventare sempre più soli, ontologicamente soli.

Sherry Turkle sostiene che la tecnologia agisce come un “arto fantasma” della connessione umana. In altre parole non siamo più capaci di dialogare.

Immaginiamo di essere costretti a stare a letto per un lungo periodo: perdiamo la capacità di camminare, perchè per la nostra cabina di regia il camminare è diventato un’attività superflua, inutile. Preferiamo un messaggio ad una telefonata, perchè abbiamo più tempo per formulare una risposta (ammesso che vogliamo rispondere). Fuggiamo dalla conversazione e ci rifugiamo nella nostra solitaria torre d’avorio con tante illusioni. Ci illudiamo di avere tanti amici, ma sono followers. Ci illudiamo di essere nel giusto perchè i nostri post hanno tanti like. Mimesi algoritmica.

Questo non fa altro che incoraggiare un comportamento “da palcoscenico”.

Un esempio lampante è dato dalla narrativa, usata da Trump in questi giorni, nei confronti dell’Ucraina. Il rifiuto di Trump nei confronti di Zelensky—”Avresti potuto negoziare un accordo”—esemplifica la sostituzione del dialogo con ultimatum, slogan. Connessioni piuttosto che conversazioni. Inquadrando la resistenza dell’Ucraina come irrazionale, la retorica di Trump attiva una funzione fatica. Facendo un’analisi semiotica peirciana si evidenzia ulteriormente questa dinamica: il segno (negoziati di pace) viene privato del suo oggetto (risoluzione equa), diventando un rituale vuoto che legittima l’aggressione russa. L’interpretante—la percezione globale dell’abbandono da parte degli Stati Uniti—rafforza l’isolamento geopolitico dell’Ucraina.

La solitudine che Turkle diagnostica e l’estraniamento geopolitico che Trump costruisce sono semioticamente omologhi: entrambi derivano dal collasso del significato intersoggettivo in significanti vuoti.

Ma con una differenza fondamentale: mentre la maggior parte delle persone subisce passivamente questa situazione, con l’aggravante di pensare di essere libera di agire, ci sono invece dei soggetti che questa situazione, questa semiosfera, la utilizzano come uno strumento molto potente. Freedom is never free.

cuori di inchiostro

Seduto nel bar. Davanti a me il caffè caldo e intorno il vociare calmo. Guardo la parete di fronte, un poster riproduce un famoso dipinto di Van Gogh. Provo stupore, misto a malinconia; le stesse emozioni di molti anni fa, quando ho visto l’originale nel museo di Amsterdam. Un pensiero strano mi entra in testa all’improvviso: e se in questo momento a fianco a me ci fosse una macchina, una intelligenza artificiale, che guardasse lo stesso poster, proverebbe qualcosa? Come si comporterebbe? Pensiero idiota? Devo bere meno caffè? Probabilmente. Immagino una macchina elegante, silenziosa, posizionata su un treppiede con complessi algoritmi turbinanti al suo interno che analizzano, attraverso un occhio di vetro, le tonalità, le pennellate, la composizione, i valori di colore, le disposizioni spaziali, fornendo un catalogo dettagliato degli elementi del dipinto e confrontandolo con migliaia di altre opere d’arte nel suo vasto database. “Riconosciuto. Van Gogh. Post-Impressionista. 1889. Olio su tela”, dichiara alla fine una voce sintetizzata, fredda e spietata come un F24. Non prova nulla.

Io sono ancora perso nel mio mondo di sensazioni, ricordando un cielo notturno dell’infanzia, il profumo dei pini, il frinire assordante dei grilli. Sento un senso di connessione con l’artista, immaginando la passione e il dolore riversati nel quadro, il battito cardiaco accelera. Il dipinto non è più tale, diventa un pretesto, un portale verso la memoria e l’emozione; non importa che sia l’originale, una copia o una semplice foto.

Mi sono meravigliato di provare sensazioni osservando una riproduzione, poi l’ho collegato istintivamente a qualcosa di non umano che simula, non prova. Ho confuso copia con simulazione: errore grossolano che la macchina non avrebbe certamente fatto. Ma non mi sento in colpa. L’umano usa la sua storia di vita per interpretare l’opera, l’IA applica modelli preesistenti. Come uno scrittore che crea schematicamente i sentimenti di un personaggio: una resa dettagliata e sfumata, ma in definitiva, è una costruzione, non un’esperienza personale e vissuta. Destinata all’oblio. Invece pensiamo a scrittori immortali, ad esempio Shakespeare. Perchè continuiamo (e continueremo) a leggerlo? Perchè Shakespeare non ha creato modelli, ha creato individui, anche se non esistiti per davvero. Ha attinto alla sua profonda conoscenza della natura umana, alle sue osservazioni, alle sue intuizioni, per dare vita a personaggi che vivono, respirano, amano, odiano, soffrono, gioiscono in modo autentico. Come noi. I personaggi di Shakespeare sono specchi in cui possiamo riflettere le nostre paure, i nostri desideri, le nostre contraddizioni. Sono esseri umani di inchiostro e parole. Proprio come quel poster di Van Gogh appeso alla parete del bar, capace di evocare un universo di emozioni attraverso un semplice, meraviglioso, atto di umana empatia, irriproducibile per una macchina. L’arte, in tutte le sue forme, è un ponte tra anime, un linguaggio universale che parla finché ci sarà un cuore pronto ad ascoltare.

Le macchine con la loro intelligenza sono degli strumenti portentosi e se sapremo utilizzarle come tali, considerandole come l’altra faccia del nostro nuovo modo di  vivere, come diceva Kipling “ you’ll be a Man, my son”.

roberto pettiti

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