
Seduto nel bar. Davanti a me il caffè caldo e intorno il vociare calmo. Guardo la parete di fronte, un poster riproduce un famoso dipinto di Van Gogh. Provo stupore, misto a malinconia; le stesse emozioni di molti anni fa, quando ho visto l’originale nel museo di Amsterdam. Un pensiero strano mi entra in testa all’improvviso: e se in questo momento a fianco a me ci fosse una macchina, una intelligenza artificiale, che guardasse lo stesso poster, proverebbe qualcosa? Come si comporterebbe? Pensiero idiota? Devo bere meno caffè? Probabilmente. Immagino una macchina elegante, silenziosa, posizionata su un treppiede con complessi algoritmi turbinanti al suo interno che analizzano, attraverso un occhio di vetro, le tonalità, le pennellate, la composizione, i valori di colore, le disposizioni spaziali, fornendo un catalogo dettagliato degli elementi del dipinto e confrontandolo con migliaia di altre opere d’arte nel suo vasto database. “Riconosciuto. Van Gogh. Post-Impressionista. 1889. Olio su tela”, dichiara alla fine una voce sintetizzata, fredda e spietata come un F24. Non prova nulla.
Io sono ancora perso nel mio mondo di sensazioni, ricordando un cielo notturno dell’infanzia, il profumo dei pini, il frinire assordante dei grilli. Sento un senso di connessione con l’artista, immaginando la passione e il dolore riversati nel quadro, il battito cardiaco accelera. Il dipinto non è più tale, diventa un pretesto, un portale verso la memoria e l’emozione; non importa che sia l’originale, una copia o una semplice foto.
Mi sono meravigliato di provare sensazioni osservando una riproduzione, poi l’ho collegato istintivamente a qualcosa di non umano che simula, non prova. Ho confuso copia con simulazione: errore grossolano che la macchina non avrebbe certamente fatto. Ma non mi sento in colpa. L’umano usa la sua storia di vita per interpretare l’opera, l’IA applica modelli preesistenti. Come uno scrittore che crea schematicamente i sentimenti di un personaggio: una resa dettagliata e sfumata, ma in definitiva, è una costruzione, non un’esperienza personale e vissuta. Destinata all’oblio. Invece pensiamo a scrittori immortali, ad esempio Shakespeare. Perchè continuiamo (e continueremo) a leggerlo? Perchè Shakespeare non ha creato modelli, ha creato individui, anche se non esistiti per davvero. Ha attinto alla sua profonda conoscenza della natura umana, alle sue osservazioni, alle sue intuizioni, per dare vita a personaggi che vivono, respirano, amano, odiano, soffrono, gioiscono in modo autentico. Come noi. I personaggi di Shakespeare sono specchi in cui possiamo riflettere le nostre paure, i nostri desideri, le nostre contraddizioni. Sono esseri umani di inchiostro e parole. Proprio come quel poster di Van Gogh appeso alla parete del bar, capace di evocare un universo di emozioni attraverso un semplice, meraviglioso, atto di umana empatia, irriproducibile per una macchina. L’arte, in tutte le sue forme, è un ponte tra anime, un linguaggio universale che parla finché ci sarà un cuore pronto ad ascoltare.
Le macchine con la loro intelligenza sono degli strumenti portentosi e se sapremo utilizzarle come tali, considerandole come l’altra faccia del nostro nuovo modo di vivere, come diceva Kipling “ you’ll be a Man, my son”.
roberto pettiti